Con amore e dolore
Giuseppe Aragno - 05-06-2003
Ci sono notti in cui è impossibile dormire. Notti in cui alla stanchezza del corpo che domanda il riposo si oppone un’attività incontrollata della mente: un circolare frenetico d’elettricità lungo i percorsi consueti dei nervi e tra le volute celebrali, che si materializza sotto le palpebre, entro gli occhi riluttanti che fanno da specchio al buio profondo dell’inconscio.
Indefinito – se non infinito - appare nelle notti d’insonnia il percorso d’un pensiero e non serve mandarlo via. Torna di nuovo. Semplicemente, automaticamente: in maniera ossessiva. Non passasse la notte, non giungesse il giorno a indirizzare altrove quel pensiero ostinato, nessuno troverebbe scampo.
Per mia madre, la notte destinata a non finire venne d’un tratto, e mi sembrò subito legittima difesa: l’ultima recita consentita.


Ebbe di strano quella sua notte – e perciò sembrò a molti pazzia – che ridusse con incredibile maestria l’intreccio complesso dei dialoghi ad una successione sincronica di monologhi. Indossava costumi semplici: per ogni abito bianco ce n’era uno nero e sul viso le maschere si succedevano l’una opposta all’altra. Ogni verità solidissima partoriva il suo opposto e si disponeva alla lotta, ma sul palcoscenico c’era sempre e solo lei. Bianca e nera, vera e falsa, irritata dalle sconfessioni, adirata in crescendo minaccioso. Dimentica degli affetti, raccolta su se stessa.
Nelle rare pause che la vedevano affannata al centro del palcoscenico, un’accorta regia trasformava in coro le mille verità sconfessate e – si vedeva – mia madre, o per meglio, dire la maschera che portava sul volto irriconoscibile, si disperava non potendo mandar via le mille voci e non riuscendo a farle finalmente tacere. Era cupo il coro quando le luci della ribalta si spensero. Poteva sembrare un corto circuito, ma dal rifugio disperato in cui si era andata a cacciare non volle mai più uscire e la luce davvero non tornò: l’ultima maschera aveva i lineamenti alterati e la incarnava la violenza.
La legge era dalla parte della normalità: non conosceva dubbi, né, a pensarci, poteva conoscerne. Con la coerenza richiesta dalle certezze, il reparto per le malattie mentali del primo policlinico era attrezzato perfettamente per la repressione dei dubbi, che la normalità sociale non può consentire. Lo separavano dal mondo un cancello bruno, il torpore annichilente dei barbiturici e la graduata violenza dei medici e degli infermieri.
Era anonimo e innaturale quando ne violai per caso il segreto - e ne fui subito segnato a vita - accompagnando mia madre incredula.

Mi odiò con la furia incontenibile che giunge all’anatema – che tu sia maledetto mi urlò – mentre mio padre era già sparito e sostenevo il peso della procedura burocratica, l’urto insostenibile della disperazione, la lama rovente d’un rimorso precoce e duraturo – c’è oggi ancora se ci penso c’è in qualche angolo inesplorato dell’anima e del corpo e continua a farmi male – la consapevolezza irrimediabile di un gesto tragico.
Che tu sia maledetto.
Aprirono brecce incolmabili dentro di me quel cancello rinchiuso per due mesi – così a lungo durò la separazione – l’andirivieni ansioso per la biancheria e le piccole cose per i detenuti cui non affidavo messaggi – le faresti del male m’avevano intimato – e le lacrime mai piante su e giù per Caponapoli con i suoi ruderi gotici sull’antica Acropoli.

La rividi dopo due mesi. Non ricordava, ma non aveva più maschere. Il liquido estratto dal midollo della colonna vertebrale - e la paralisi dolorosissima di giorni atroce, i fili che la trapassavano con l’elettricità
( un’algerina della Resistenza ne avevo fatto col mio amico psichiatra che si faceva amare con la sua scienza folle ) - la segregazione, il silenzio terrorizzato e la tortura dei sedativi ne avevano spezzato la ribellione.
Quando uscì dopo tre mesi - tanto durò la detenzione, ma ci facemmo compagnia di nuovo - poteva sembrare tranquilla e normale, per ciò che vuol dire normale. A me sembrò finita. Non aveva più negli occhi le luci della ribalta, non cercava più il palcoscenico e non aveva più l’amore appassionato per le finzioni della scena. Attrice ancora, forse, ma ormai senza un ruolo. L’avrebbero periodicamente scossa ribellioni furenti, avrebbe avuto sussulti d’odio e lampi di dolcezza, ma le sole maschere capaci di vivere erano state definitivamente uccise.
La bella donna bionda dai capelli ondulati si perse in quei mesi. Portò con sé in un abisso insondabile il bambino che aveva condotto per mano con amore e dolore.


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